…così con la scusa di credere di essere un’incapace, tanto da non meritare l’accesso agli studi universitari, a soli diciannove anni ho pensato bene di scappare di casa, volando fuori dal nido/casa con zero risorse e una baldanza simulata e poco reale.
Mi sosteneva in questa scelta ribelle tanta rabbia, tanto livore, risentimento e un concentrato di assoluta idiozia. L’unica cosa di cui ero certissima, ogni mattina, nel tirar su la tapparella della mia camera, rivolta verso il grande logo rosso (poi diventato blu) con la scritta Fiat, era una frase, un mantra: “io lì no, io lì non ci entrerò mai e poi mai”.
Il mio sguardo era teso oltre la scritta “Fiat” e andava ben oltre i ponteggi del palazzo in costruzione di fronte al mio: man mano che avanzavano i lavori, perdevo la visuale delle candide montagne e si spegneva il rosso dei tramonti che alla sera ingentilivano l’aria e il cuore della città.
Quegli stralci di natura rubata tra un condominio e l’altro, mi riempivano il cuore, ma consolidavano l’intima certezza che no, io non sarei rimasta lì, in quella città che sentivo sempre più livida e polverosa; che no, non mi sarei piegata come tutti al suono ciclico delle sirene, con il quale “l’azienda madre” richiamava all’ordine e al dovere tutti i suoi abitanti, derubandogli del loro tempo, dei loro sogni, della loro libertà, senza che neanche loro se ne accorgessero.
Così che quella me, una piccola diciannovenne che si sentiva già grande, vide la storia e re-agì…