Mia madre era una bravissima cuoca: ricordo ancora le tagliatelle, i gnocchi, gli agnolotti stesi sul tavolo della cucina.
A quel tavolo ci arrivavo a stento, perché il naso sfiorava a malapena lo spigolo. I miei occhi hanno visto mani sapienti sbattere, impastare, cucinare, chiudere con cura ogni singolo agnolotto, riempire la “tasca di carne” (la sacòcia in torinese) con un ripieno profumatissimo.
Ricordo però, nella mia pelle, anche la latente e non manifesta infelicità di vivere. Mamma era quel genere di donna votata al servizio alla famiglia non perché predisposta, ma perché obbligata dalle leggi sociali del tempo. Parlare di realizzazione era blasfemo, direi impossibile. Così lei, ritiratasi dal lavoro per volere sociale, si dedicò a noi, a mio padre e a me, letteralmente incastrata nella cucina di casa. I risultati erano ottimi, al punto che a nessuno veniva in mente quanto le potesse costare tutto ciò; sembrava tutto così facile ma soprattutto, non traspariva nessun tipo di rimpianto rispetto alla sua vita precedente.
Purtroppo, dico io, adesso che so che le mie sensazioni di bimba, erano vere.
Sarà stato quello, ma quella infelicità collegata al cibo io me la sono annusata tutta intanto che la osservavo, respirando con lei quell’aria di mefitica chiusura, all’interno della stanza.
Il risultato è stato che non sono diventata una cuoca pregevole anzi; di organizzare pranzetti, per anni, me ne sono ben guardata.
Fino a che…fino a che arriva il primo famoso, storico ormai lockdown e, improvvisamente, inizio a girovagare per la cucina, cercando su internet ricette. Decido per il pane, come peraltro milioni di persone. “Wow, ma che mi sta succedendo?” Le mie mani impastano, arrotolano e mi stupisco di quanto di lei sia rimasto in me, nonostante tutto. E sorrido. Sorrido non tanto del risultato, sorrido a noi.
Anche nel secondo “fermo del mondo”, mi sono riavvicinata alla cucina, stavolta con l’ambizione di cucinare qualcosa che cucinava lei, qualcosa che amavo sopra ogni altra cosa: gli involtini di verza.
Voi direte: beh che ci vuole? ehhh ci vuole! Intanto mi serve di capire cosa usare esattamente, il tempo di cottura, dettagli che mi pare di non conoscere. Mi riafferra lo sghiribizzo di provarci, ispirata dal banco della carne trita del supermercato. Sono piuttosto in crisi, l’indecisione mi fa attardare davanti al banco frigo che esala freddo: quale scegliere? Dopo anni di verdure e cereali, la carne è un cibo dalle caratteristiche sconosciute.
Sto per mettere mano al cellulare per chiedere aiuto al “signor Google”, quando una donna, si accosta al mio stesso banco. La osservo per un pò. A vederla così sembra sappia il fatto suo. Percepisco che ha chiaro – al contrario di me – il suo progetto culinario; lo vedo dai suoi movimenti veloci, decisi. Oso avvicinarmi: “Scusi signora, posso disturbarla solo un attimo? Vorrei chiederle un consiglio?”.
Le mascherine occultano gran parte dei nostri volti, ma gli occhi, ancora ben visibili, mi vedono e mi rispondono. “Ma certo, dica” – risponde gentilmente la signora.
Prendo coraggio e chiedo: “Sa io vorrei fare gli involtini di verza ripieni di trita, come quelli che faceva la mia mamma, ma non so proprio quale tra queste carni scegliere.”
Lei ci pensa un attimo; decisa mi indica la vaschetta con la trita quella mista : “Questa va bene se no l’impasto diventa troppo asciutto”. Ci sorridiamo di più: posso intuire che la piega della sua bocca è come la mia, rivolta all’insù. Credo ci saremmo volentieri abbracciate, ma ci siamo limitate a salutarci come vecchie amiche, felici di un incontro dalle fattezze ancora umane, scevro da diffidenza o imbarazzo. Chissà cosa o chi le ho ricordato?!
Sono uscita dal supermercato con la leggerezza nel cuore; nonostante tutto, se si vuole, ci si può relazionare anche con la mascherina e non rinunciare per questo alla nostra umanità.
Corro verso casa. Non vedo l’ora di mangiare gli involtini di verza che mi preparerò, per sentire vicino a me, ancora una volta, quella donna triste e silenziosa che è stata mia madre. Non vedo l’ora di ricordarmi di lei intanto che assaporo gli involtini e guarire in questo modo, ciò che resta dalle nostre reciproche ostilità.
Grazie Wanda per avermi insegnato che a essere gentili si guadagna sempre: infatti quel sorriso dietro la maschera, difficilmente lo scorderò. Sarà con noi, con me e Wanda, quando finalmente, seduta alla mia tavola, mangerò i nostri involtini di verza.